Luciano Salce torna alle origini

di Antonello Trombadori

Luciano Salce, il regista della "Voglia matta" e del più recente "La cuccagna", si rivelò subito, fin dai tempi della sua frequentazione dell'Accademia d'arte drammatica di Roma e delle sue prime battute d'attore di prosa, come un acuto osservatore del costume e delle pieghe meno appariscenti, ma tanto più contorte e incisive, delle storture d'animo e dei pregiudizi piccolo-borghesi della nostra società. Tra il ridicolo e il patetico correva in bilico, sul filo arguto di uno spregiudicato moralismo, la capacità mimetica di Salce: personaggi altezzosi e sciocchi, appena orecchiati dalle maschere della commedia dell'arte ma solidamente nutriti di un colore realistico, di pertinente attualità, si rispecchiavano nel suo gestire parsimonioso, nel suo accentuare le parole quasi mangiandosele per restituirle tradotte in immagine nella smorfia del volto o nel muto commento degli sguardi. E vivevano di una vita propria, una vita non più soltanto mimetica ma creativa. Salce era del gruppo dal quale vennero da un lato i Gassman, gli Sbragia, le Falk, i De Lullo, dall'altro i Bonucci, i Caprioli, i Mazzarella. Se in Italia avesse potuto mettere radici, così come sembrò nell'imediato dopoguerra, un teatro satirico, libero, audace e mondo da ogni stratificazione qualunquista o accademica, non so se Salce ne sarebbe diventato uno dei più efficaci autori o attori. Forse l'una e l'altra cosa insieme. Certo un protagonista. Ma in Italia ciò non accadde. Il diritto alla satira politica e di costume, scaturito insieme alle altre libertà dalla Resistenza e dalla lotta antifascista, fu uno dei primi ad essere soffocato. Né la grande forza della opposizione di sinistra ebbe la capacità di unire alla lotta di massa e parlamentare contro la censura una iniziativa promotrice nel campo dello spettacolo. Adesso Salce, reduce da anni di lavoro teatrale in Sud America, ha trovato nel cinema la sua forma di espressione. Si ritrovano in tutti i suoi film il garbo, la amabilità, la finezza mimetica, il ritmo espressivo che ce lo fecero apprezzare fin dagli anni giovanili. Ma quasi spento parve risultare in lui l'impegno ad andare oltre la pittura di caratteri, a scalfire la crosta della comicità convenzionale per toccare le vene vive della indignazione. Salva è però in Salce l'intelligenza. E non una intelligenza generica, ma l'intelligenza dell'attore satirico, del mimo che sa come dalla realtà non basti tanto ripetere i momenti e gli aspetti grotteschi quanto occorra ricavare stimoli per creare situazioni, dialoghi, personaggi originali. Nella "Cuccagna", molto più che nelle altre sue fatiche cinematografiche, Salce ha dato la migliore prova di questa sua non tramontata né svaporata consapevolezza. La storia della giovane ragazza romana alla ricerca affannosa d'una occupazione onesta, le sue peripezie non mirabolanti né eccessivamente scandalose (certo non da "dolce vita") ma essenzialmente tediose e insopportabili attraverso i pregiudizi, gli impedimenti, le viltà, le ipocrisie, i falsi entusiasmi, che costituiscono la pelle scabrosa e impenetrabile della cosiddetta "Cuccagna" del miracolo economico italiano, sono cucite assieme col gusto della scenetta bruciante, della illuminazione improvvisa, tutte prevedibili nella impostazione, impreviste nel risvolto. Ecco dunque Luciano Salce tornato alle sue origini più vere. Nel personaggio paradossale del giovane comunista che Salce ha posto al centro della "Cuccagna" a fare da spalla alla giovanissima e bravissima Donatella Turri, in giro per la giungla cittadina, c'è molto di più d'una figura di comodo. C'è abbozzata la biografia esemplare d'una generazione, la critica dei suoi difetti e, insieme, la commossa approvazione d'un comportamento nel quale anche le punte più velleitarie appaiono ispirate a un sincero amore per la libertà.

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