Da "L'Europeo" n.9/1967

Morire per il successo

Nel suicidio del giovane cantautore si esemplifica il paradosso dei protestatari: se la prendono con la società in cui vivono ma non sanno rinunciare al suo consenso.

Naturalmente, a chi vive (o sopravvive) il suicidio di un altro sembra sempre assurdo. Il suicidio del bonzo che si da fuoco, quello della domestica sedotta e abbandonata, quello di Tenco Luigi di anni 29. Ovvio: rimane sempre una sproporzione fra il bene supremo della vita e le cause che possono indurre qualcuno a togliersela. Anche questa volta, i soliti commenti: aveva tutto dalla vita, quindi perché l'ha fatto? Gli si fanno i conti in tasca, la prima autopsia è quella economica: prendeva tanti milioni all'anno di diritti d'autore, era garantito da un buon contratto, aveva una bella macchina. Era arrivato finalmente alla maggior ribalta canora italiana. Migliaia di giovani come lui lo invidiavano. Figuriamoci: allora chissà quanti avrebbero dovuto uccidersi con molta maggior ragione di lui. Poi si scopre che magari non era felice sentimentalmente, si tira fuori Stefania Sandrelli, si rispolvera Gino Paoli e l'altro colpo di pistola. Ma allora, dice la gente, se tutti quelli che non hanno fortuna in amore dovessero spararsi, il mondo echeggerebbe di spari come una sala d'armi. Insomma, il suicidio non convince mai: fa pena, ma fa anche tanta rabbia.
ALCUNI RAGAZZI DEPONGONO FIORI DAVANTI AD UN RITRATTO DI LUIGI TENCO È sempre stato così. Oggi, però, ci sembra più assurdo di una volta. Purtroppo non è soltanto più assurdo, è anche più frequente. Le statistiche le conosciamo tutti. Si tolgono la vita, in un anno, tante persone quante una volta in dieci anni. Non solo: si sono almeno triplicati i suicidi di giovani al di sotto dei trent'anni. Siamo di fronte a un'autentica emorragia che colpisce la società umana. Le nazioni più colpite sono stranamente quelle in cui il benessere è maggiore, il progresso è più marcato. Fra le città, vediamo in testa Stoccolma e Copenaghen. Subito dopo c'è Vienna.
Il Tenco che è morto, cos'era? Un cantante? Un cantautore? Uno studente di Scienze politiche? Un ex studente di Ingegneria? Era legato alla Rca o all'Università di Genova? Era un po' di tutto. Voleva essere un po' di tutto, come migliaia di suoi coetanei. Dalla volontà alla velleità il passo diventa brevissimo. E le velleità costano care, anche se sul momento rendono di più. (...)
Che deve fare un cantautore se non sforzarsi di scrivere delle belle canzoni? È ovvio, pare. Ma se poi il pubblico non se ne entusiasma? Ecco far capolino il bambino, che si aspettava il cioccolatino di premio e si ritiene defraudato se non l'ottiene. Strano paradosso dei protestatari: ce l'hanno con la società in cui vivono, ma hanno un bisogno matto che la stessa società li approvi (...)
È difficile che si crei un altro mito alla James Dean o alla Marilyn Monroe, quando nel giro di due giorni quattro giovani donne seguirono volontariamente la sorte del loro idolo. Bisognava sentire i commenti delle nuove generazioni del mondo della canzone, a Sanremo: poche ore dopo, la tristezza lasciava il posto a giudizi molto freddi e persino cinici verso chi non aveva saputo superare la delusione della sconfitta.
I sociologi sostengono che il nuovo indirizzo non deve più essere quello di stimolare il coraggio per il successo ma, come dice Reissman, "the nerve of failure", cioè il coraggio dell'insuccesso. I due termini dovranno elidersi fra loro. Gli americani ci contano molto, loro ne sanno qualcosa, ricordano ancora i suicidi a grappoli dopo la crisi del '29 a Wall Street.
C'è un loro modo di dire che è tipico: il successo è come un albero della cuccagna, dove ci si arrampica per cogliere un premio di dieci dollari sciupando un vestito che ne vale duecento. Qualche volta - non sarebbe male ricordarle - il vestito che si sciupa è fatto della nostra cara pelle.

Dino Origlia


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